venerdì 20 marzo 2009

Federico De Roberto: I Vicerè

Il più bel romanzo italiano dell'Ottocento: ogni volta che lo rileggo resto sempre della stessa opinione. Un romanzo storico, o meglio antistorico, un'intricata saga familiare in cui si succedono tre generazioni della famiglia Uzeda di Francalanza di Catania, discendente dai vicerè spagnoli. Anche per De Roberto si potrebbe affermare ciò che disse Pirandello: "Ognuno ha la sua croce, io ho Benedetto". La stroncatura crociana ha infatti influito negativamente sulla popolarità di questo libro che ritengo un vero capolavoro. La bellezza che mi avvince ogni volta è la tecnica narrativa, uno stile obliquo, di seconda mano, in cui una ridda di personaggi si avvicenda sulla scena passando da comparse a comprimari a protagonisti di una porzione della storia. Non c'è una sola figura positiva, sinceramente non riesco vederla nemmeno nella contessa Matilde, che col suo vittimismo accelera la fuga del marito.


La vicenda storica si snoda dal 1855 al 1882, anno delle prime elezioni a suffragio allargato, dagli epigoni della dinastia Borbonica al governo della Sinistra. La saga familiare inizia con la morte della matriarca Teresa e l'apertura del suo testamento, che vede nominati eredi non solo l'odioso primogenito Giacomo, erede del titolo principesco, ma anche il contino Raimondo, il prediletto. Il filo rosso delle eredità, carpite con l'inganno o ricercate avidamente, si sussegue lungo tutta la trama: è infatti l'ossessione del principe Giacomo, che riesce con una serie di tresche a riprendere ai fratelli quanto non gli era stato lasciato dalla madre; è il principale argomento di conversazione, ma soprattutto di invettiva di don Blasco, il corrotto monaco benedettino zio del principe, il cui testamento verrà a sua volta falsificato; è infine anche il velato obiettivo di Consalvo, il principino di casa Uzeda, quando dopo la sua elezione a deputato andrà a far visita ai prozii, il duca Gaspare, senatore del Regno, e la vecchia zitellona donna Ferdinanda, fervente Borbonica.

Un altro tema presente nel romanzo è il cinismo e la volubilità delle relazioni coniugali: "Guardiamo la zia Chiara, prima capace di morire piuttosto che di sposare il marchese, poi un'anima in due corpi con lui, poi in guerra ad oltranza. Guardiamo la zia Lucrezia che, viceversa, fece pazzie per sposare Giulente, poi lo disprezzò come un servo, e adesso è tutta una cosa con lui..." Anche la giovane Teresa, per non contraddire il volere del padre e le sue ubbie nobiliari, finisce con lo sposare il deforme cugino duca Michele, sfornandogli un figlio dopo l'altro e spingendo alla follia e al suicidio il fratello cadetto Giovannino. E che dire del principe Giacomo e del contino Raimondo, che ribaltano i matrimoni combinati dalla madre, per sposare la pettegola e acida cugina Graziella e la bella forestiera di turno? Stupende le prolusioni del cocchiere Pasqualino, che narra la tresca tra Raimondo e donna Isabella: il cambiamento del punto di vista, il suo ribaltamento e la deformazione della realtà è infatti una delle tecniche narrative più frequenti, tanto che non esiste più una storia, non esiste più una verità.


Altro motivo centrale è quello della decadenza della razza. Uno dei passi più famosi del romanzo, un pezzo degno del miglior Naturalismo, è il racconto del parto di Chiara. Dopo anni di gravidanze annunciate e mai arrivate o portate a termine, mentre tutti attendono i risultati dell'elezione del Duca a deputato, la marchesa Chiara entra finalmente in travaglio. "A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall'alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo."

Nonostante l'ostruzionismo dei parenti Chiara vuole vedere l'aborto e decide di conservarlo sotto spirito: "Zio, non pare la capra del museo?"
Al museo dei Benedettini c'era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré
.

"Il governo è ladro e deve fare il suo mestiere di ladro" è una delle frasi esemplari che si trovano nel romanzo in bocca a quel personaggio picaresco ed unico che è don Blasco.

Ma vi sono altri episodi nel romanzo che spiccano per la loro esemplarità.

Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò:
"Che cosa vuol dire deputato?"
"Deputati," spiegò il padre, "sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento."
"Non le fa il Re?"
"Il Re e i deputati assieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!..."

Questo antistoricismo si ritrova anche in altri romanzi siciliani come Il Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi" è infatti la sentenza di Tancredi quando si unisce ai garibaldini. La stessa strada seguita da Consalvo che, sedotto dal potere della capitale durante il suo voyage de formation, si converte dal legittimismo Borbonico alla Sinistra che sola lo può portare sui banchi di Montecitorio succedendo così allo zio duca.

Nell'ultimo capitolo del romanzo troviamo infatti la sublimazione del trasformismo nel comizio elettorale di Consalvo che parla per due ore consecutive senza dire assolutamente nulla. Ma al discorso pubblico segue il vero discorso, di aristocratico fino al midollo, tenuto ad una tossicchiante donna Ferdinanda: "Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?..." continuava Consalvo. "Orbene, imaginiamo che quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press'a poco: "Don Gafpare Vzeda"," egli pronunziò f la s e v la u, ""fu promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco II di Borbone al Re don Vittorio Emanuele II di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino, Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico di senatore. Don Consalvo de Uzeda, VIII prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo..." Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: "Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d'Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?"
E infine:
"Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa."

lunedì 9 marzo 2009

Flavio Lucchesi: Cammina per me, Elsie

Saggio storico o romanzo? Anche dopo averlo letto e gustato appieno, non so dire se prevalga l'uno o l'altro aspetto in questo strano libro che prende qualcosa da tutti e due i generi. Sì perché l'accurata ricostruzione storica del ricercatore è seguita dal racconto, rielaborato a partire delle memorie di Elsie, cioè Ersilia Maffina.


La storia della famiglia Maffina, originaria della Valtellina, è esemplare di quella grande ondata migratoria che partì dalla provincia di Sondrio verso l'Australia tra la fine dell'Ottocento e la metà del secolo scorso, passando dalle montagne al Bush. Il padre di Elsie, Giuseppe detto Joe, parte da Chiuro per gli USA per poi raggiungere i fratelli nella zona di Kalgoorlie nel Western Australia. Qui i Maffina lavorano duramente abbattendo alberi, finché non riescono ad acquistare una farm nel nord verso Geraldton. Ma un incendio, forse doloso, distrugge tutto, lasciando la famiglia sul lastrico.
Negli anni trenta troviamo i Maffina a Kalgoorlie. Qui la famiglia viene coinvolta nel terribile pogrom del 1934, che vede gli italiani vittime di un odio razziale scatenato nei loro confronti a causa della grande recessione di quegli anni. Anche qui le cose non vanno meglio: il Main Reef Hotel e l'Home Family Hotel vengono devastati, incendiati e distrutti dalla furia dell'odio razziale.
La terza parte del libro si colloca invece durante la seconda guerra mondiale. Nonostante Joe avesse preso la cittadinanza australiana dal 1922 e per giunta soffrisse di cuore, egli venne recluso in un campo d'internamento, come molti italiani che subirono la sorte di passare da immigrati a "stranieri nemici".

Negli anni settanta ho avuto modo di conoscere direttamente la realtà degli emigrati valtellinesi e italiani in Australia. Pur ben integrati e parte attiva della società , non sempre gli italiani erano visti bene dagli australiani, che usavano ancora nei loro confronti epiteti quali dingos. Erano anni di boom e di passaggio per l'Italia, da nazione che emigrava per sopravvivere a nazione ricca e decadente che oggi importa quella stessa manodopera a basso costo che aveva esportato per anni.