venerdì 14 febbraio 2014

Verga: Libertà

Analisi del testo Libertà di Giovanni Vergada Novelle rusticane, 1883

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: — Viva la libertà! —
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
— A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! — Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. — A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! — A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! — A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! — A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! —
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! — Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! —
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. — Perché? perché mi ammazzate? — Anche tu! al diavolo! — Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. — Abbasso i cappelli! Viva la libertà! — Te’! tu pure! — Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. — Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! — La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota[1] e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. — Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse — lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia — don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. — Paolo! Paolo! — Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: — Neddu! Neddu! — Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. — Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; — strappava il cuore! — Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni — e tremava come una foglia. — Un altro gridò: — Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! —
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! — Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. — Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! — Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! — Te’! Te’! — Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. — Viva la libertà! — E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. — I campieri dopo! — I campieri dopo! — Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata — e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: — Mamà! mamà! — Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo capestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. — Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! — Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. — Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! — Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! — Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! — E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? — Ladro tu e ladro io —. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! — Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale[2], quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo — ahi! — ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: — Sta tranquilla che non ne esce più —. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia — ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. — Voi come vi chiamate? — E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: — Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la liberta!...

Questa novella, pubblicata nel 1882 e poi confluita nella raccolta “Novelle rusticane”, racconta un episodio reale, avvenuto nel 1860 a Bronte, un paese alle falde dell’Etna, in occasione della spedizione dei Mille di Garibaldi. I contadini affamati, raccogliendo un proclama del condottiero ed interpretandolo alla luce dei loro interessi materiali, si ribellarono ai ricchi proprietari terrieri facendone strage.

1.      Comprensione complessiva
Dopo un’attenta lettura, riassumi in non più di 10 righe (150 parole) il contenuto della novella Libertà.
Riassunto
Dopo aver spiegato sul campanile il tricolore, simbolo della libertà. i contadini di Bronte si diedero a massacrare tutti i maggiorenti del paese, coinvolgendo in questa folle ed insensata carneficina anche vittime innocenti. Il giorno successivo tra gli autori del massacro regnava il sospetto ed ognuno ragionava su come spartirsi le terre dei possidenti ammazzati. L’arrivo del generale Bixio, che fucilò i primi ribelli che gli capitarono tra le mani, riportò le cose alla normalità. Seguì in città un lunghissimo processo, durato ben tre anni, al termine del quale gli imputati, che avevano pensato che libertà significasse possesso della terra, furono condannati senza capire il perché. [106]

2.    Analisi e interpretazione del testo
2.1 Nel racconto prevale la dimensione spaziale o quella temporale? Perché? Su tale base dividi il testo in tre parti.
Prevale la dimensione temporale, chiaramente scandita dai tre verbi che introducono le tre sequenze: Sciorinarono – Aggiornava – Dopo arrivarono i giudici. Lo spazio viene definito solo nell’ultima sequenza con la citazione ripetuta della città (si tratta di Catania) e per contrapposizione il paesetto/villaggio.
1) il momento della ribellione
2) i giorni immediatamente successivi
3) il ritorno alla normalità

2.2 Quali caratteristiche ha l’avvio della narrazione? Come procede successivamente?
Nella prima parte della novella è presente l’artificio della regressione. La voce narrante coincide con uno dei popolani autori della carneficina. Ciò fa riflettere il lettore, facendogli assumere un atteggiamento critico che non lo fa identificare con la voce narrante (straniamento).L’inizio della narrazione è corale e fortemente espressionistico, mente il prosieguo è più distaccato e impersonale. Si tratta comunque sempre di due modi di narrare veristi, come se le scene venissero oggettivamente fotografate.

2.3 Perché la folla è inferocita? Con chi se la prende la folla? Da cosa vengono identificati i due gruppi antagonisti? Spiega cosa significa “carnevale furibondo”.
La folla è inferocita perché vuole la fine dei soprusi e la spartizione della terra. Se la prende con i “galantuomini” del villaggio, che vengono identificati con i “cappelli”; ad essi si contrappongono i “berretti”, vale a dire la “povera gente”. L’espressione “Carnevale furibondo” è una sorta di ossimoro.  Il carnevale è infatti il giorno in cui è lecito ribaltare i ruoli (semel in anno licet insanire, dicevano i latini), ma furibondo richiama la furia devastatrice, estranea ad ogni liceità, ad ogni ragione e ad ogni diritto.

2.4 La rivolta procede con forza: che cosa succede la sera di quel terribile sabato? E la mattina della domenica? Perché all’arrivo dei soldati, l’indomani le donne strillano e si strappano i capelli?
La sera del sabato la gente, sazia di sangue, comincia ad avere paura e si chiude in casa. La mattina dopo regna il sospetto e si comincia a mormorare come spartire le terre. All’arrivo dei soldati le donne si strappano i capelli, come in segno di lutto, perché sanno già che i propri uomini saranno condannati.

2.5 Il generale Nino Bixio è presentato in due opposti atteggiamenti: quali? Quale sorte tocca ai ribelli? Qual è il comportamento dei loro familiari durante gli anni del processo? perché piano piano le mogli e poi le madri ritornano in paese?
Bixio è come un padre per i suoi soldati, ma sacramenta !come un turco” e fa giustizia sommaria fucilando alcuni ribelli. Altri ribelli vengono portati a Catania per il processo e le loro donne li seguono. Le donne tornano in paese perché impossibilitate a mantenersi.

2.6 Durante il processo, qual è l’atteggiamento dei giudici e quale quello dei ribelli? Per quali motivi alla fine il carbonaio si sente ingannato e non capisce il perché della propria condanna?
Gli imputati sono pallidi e sembrano dei sepolti vivi; i dodici giudici popolari sono dei “galantuomini” e, pur annoiati dalle lungaggini del processo, pensano di averla “scampata bella” a non essere di Bronte. Per il carbonaio libertà vuol dire avere la terra , quindi non capisce la condanna in quanto di terra non ne ha né rubata né avuta.

2.7 Soffermati sull’atteggiamento dell’autore, Giovanni Verga, chiarendo il senso della scelta dell’impersonalità dello scrittore verista, soprattutto dal punto di vista narrativo.   
La tecnica dell’impersonalità è presente anche in questa novella, soprattutto nella prima parte in cui prevale il racconto corale della carneficina perpetrata ai danni dei “cappelli”. È come se la scena venisse fotografata e le parole dei parlanti registrate attraverso i cosiddetto discorso indiretto libero che consiste nel riportare alcune battute particolarmente significative all’interno del discorso indiretto della narrazione.

3.      Interpretazione complessiva e approfondimenti
Proponi una tua interpretazione complessiva del brano e approfondiscila con opportuni collegamenti ad altri testi di Verga letti in classe. In particolare puoi fare riferimento al dibattito fra intellettuali riguardante il fenomeno della piemontesizzazione e i problemi dell’Italia post-unitaria e alla posizione di Verga sull’argomento.









[1] Luogo in cui le madri abbandonavano i neonati che non riuscivano a mantenere.
[2] Nino Bixio

giovedì 13 febbraio 2014

Verga: La Lupa

Analisi del testo e riassunto: La Lupa di Giovanni Verga, da Vita dei campi, 1880.

Ritratto della protagonista (N.B. tempo principale della narrazione imperfetto, azione durativa)
Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
  Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei.
  Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.

L’innamoramento (N.B. tempo principale della narrazione passato remoto)
  Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le diceva: - O che avete, gnà Pina? - Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: - Che volete, gnà Pina? –
  Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: - Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!
-         Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella - rispose Nanni ridendo.
  La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte.
  - Prendi il sacco delle olive, - disse alla figliuola, - e vieni -.
  Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava - Ohi! - alla mula perché non si arrestasse. - La vuoi mia figlia Maricchia? - gli domandò la gnà Pina. - Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? - rispose Nanni. - Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po' di pagliericcio. - Se è così se ne può parlare a Natale - disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell'olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferrò pe' capelli, davanti al focolare, e le disse co' denti stretti: - Se non lo pigli, ti ammazzo! –

Seduzione e scandalo (N.B. tempo principale della narrazione imperfetto, azione durativa o iterata)
  La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte.
-                 Svegliati! - disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. - Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola -.
  Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.
  - No! non ne va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! - singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l'erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. - Andatevene! andatevene! non ci venite più nell'aia! -
  Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
  Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte - e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: - Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell'aia! –
  Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch'essa, allorché la vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta. - Scellerata! - le diceva. - Mamma scellerata!
  - Taci!
  - Ladra! ladra!
  - Taci!
  - Andrò dal brigadiere, andrò!
  - Vacci!
  E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare.
  Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. - È la tentazione! - diceva; - è la tentazione dell'inferno! - Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
  - Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai!
  - No! - rispose invece la Lupa al brigadiere - Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene.

Amore e Morte (N.B. tempo principale della narrazione passato remoto)
  Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito. - Lasciatemi stare! - diceva alla Lupa - Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... -
  Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere l'anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza - e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:
  - Sentite! - le disse, - non ci venite più nell'aia, perché se tornate a cercarmi, com'è vero Iddio, vi ammazzo!
  - Ammazzami, - rispose la Lupa, - ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci -.
  Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all'anima vostra! - balbettò Nanni.
Questa novella fu inclusa nella raccolta vita dei Campi e pubblicata nel 1880. Racconta l’irresistibile fascino di una contadina assatanata e divoratrice di uomini

1.      Comprensione complessiva
Dopo un’attenta lettura, riassumi in non più di 10 righe (150 parole) il contenuto della novella.
Riassunto: La gnà Pina era una donna molto sensuale, di una bellezza prepotente che attirava i maschi, ed era l’incubo delle donne del paese dalle quali era stata soprannominata la Lupa, per la sua selvatichezza e l’insaziabile fame di uomini.
Ma anch’ella un giorno si innamorò di Nanni, un giovane contadino che non la ricambiava. Alla sua dichiarazione d’amore, il giovane ribatté che voleva sposare invece sua figlia Maricchia. E così fu.
La Lupa si era riservata un cantuccio nella casa coniugale, ma non desisteva dal provocare il genero, sia in casa che mentre lavorava in campagna, finché il giovane cedette. Maricchia reagì andando a denunciare l’incesto alle autorità, che però non poterono intervenire.
Solo quando Nanni fu sul punto di morire, a causa di un incidente sul lavoro, la Lupa lasciò la casa. Ma una volta guarito, la suocera, incapace di stare senza di lui, riprese a tentarlo ponendolo di fronte all’alternativa di possederla o ammazzarla. [156]
 
2.    Analisi e interpretazione del testo
2.1 Suddividi la novella nelle sue principali sequenze narrative ed assegna a ciascuna un titolo. (vedi testo)

2.2 Come viene descritta la Lupa? Quali elementi concorrono a farne un personaggio “primitivo”?
La Lupa viene descritta come una donna non più giovane ma con una fortissima carica sensuale, che non si relaziona con gli altri abitanti del villaggio, se non per il fatto che ne attrae sessualmente tutti gli uomini. È pure una lavoratrice instancabile che in campagna fatica meglio e più di un uomo. È un personaggio primitivo in virtù della sua sensualità ostentata ed esibita che obbedisce esclusivamente all’istinto senza accettare i compromessi imposti dalla convivenza civile.

2.3 Quali funzioni assumono, rispetto alla Lupa, gli altri due personaggi, la figlia Maricchia e Nanni?
Maricchia e Nanni sono entrambi antagonisti e vittime della Lupa. Entrambi cercano, senza successo, di ribellarsi.

2.4 Quali caratteristiche presenta il paesaggio che fa da sfondo alla vicenda?
Il paesaggio descritto viene raffigurato nei suoi elementi più estremi: l’afa d’agosto o il grecale di gennaio. Vi è una sorta di corrispondenza tra il paesaggio assolato e riarso e l’implacabile sete di uomini della protagonista. Vedi anche la corrispondenza anima-paesaggio tipica della narrativa verghiana.

2.5 Rintraccia nel testo i punti in cui emerge la voce del narratore popolare.
La descrizione iniziale della Lupa è filtrata attraverso gli occhi popolari del paese, attraverso l’artificio della regressione. La Lupa viene descritta tramite un proverbio popolare sia appena dopo il matrimonio, che dalle parole del genero dopo il primo amplesso. Infine emerge quando auspica la morte di Nanni dopo il calcio del mulo.

2.6 La Lupa è giudicata come un essere infernale: trova nel testo le espressioni e i passi che evidenziano tale aspetto.

2.7 Analizza il finale della novella. Che caratteristiche ha?
Si tratta di un finale aperto, lasciato abilmente in sospeso. Nanni “balbetta” quindi non si capisce se desiste dall’ammazzare la suocera cedendo al suo fascino erotico, oppure se esiti un attimo prima di ucciderla. Ugualmente la maledizione che le rivolge può essere un segno di resa, ma anche un’invettiva che le lancia assieme alla scure con cui la colpisce.

3.      Interpretazione complessiva e approfondimenti
Quale concezione del mondo campagnolo emerge dalla novella? Si tratta di una visione tradizionale o innovativa? Sviluppa le tue considerazioni facendo riferimento anche ad altre novelle di Verga.

La visione del mondo campagnolo che emerge da questa e da altre novelle di Verga, come L’amante di Gramigna, Cavalleria rusticana, o La roba è quanto di più distante dalla visione pastorale ed arcadica della tradizione classica e rinascimentale. La campagna siciliana, bruciata dal sole estivo e battuta dai gelidi venti invernali, fa da sfondo a passioni primordiali: la pulsione erotica della Lupa o di Peppa, oppure l’accumulazione di ricchezze di Mazzarò. Non più quindi locus amouenus in cui ritirarsi per un meritato otium, ma terra di fatica, sudore e passioni estreme. In alcuni passi di Verga vi è infatti una forte componente simbolica che sottolinea la consonanza fra anima e paesaggio. Se ad esempio nel passo dei Malavoglia in cui Alfio e Mena si parlano, le stelle ammiccano forte sottolineando la purezza della loro passione, in questa novella un paesaggio arso e desolato fa da sfondo ad una passione istintiva e primordiale. La fame di uomini della Lupa travalica non solo le convenienze sociali, ma pure le relazioni familiari giungendo fino all’incesto. Del resto in Verga le relazioni familiari sono ridotte a pura convenienza o calcolo economico (Rosso Malpelo, Malavoglia). Non c’è spazio per i sentimenti. 


mercoledì 20 giugno 2012

Saba: Città vecchia

Commistione dei generi e citazionismo: queste due caratteristiche sono proprie della letteratura e dell'arte della seconda metà del Novecento. E anche Fabrizio de Andrè, il grande cantautore e poeta genovese, non ne è esente. Ecco quindi che mi è venuto spontaneo accostare la sua canzone La città vecchia alla lirica quasi omonima di Umberto Saba Città vecchia. In entrambe il protagonista è il centro storico della città, Genova o Trieste, (descritto magistralmente in questo video della prof. Clara Veronese), popolato da un'umanità varia e oscura, detrito del grande porto che è il cuore pulsante della città stessa.

La poesia è composta da quattro strofe di diversa lunghezza e senza un preciso schema metrico, in cui prevalgono gli endecasillabi (due di essi tronchi), ai quali si alternano due settenari, tre quinari e un ternario. Vi è la presenza dell'anafora dell'avverbio di luogo qui che sottolinea appunto la centralità e l'importanza del centro storico come protagonista della lirica. Da notare le poche parole in rima: lupanare/mare; detrito/infinito; va/umiltà; friggitore/amore/dolore/Signore; impazzita/vita; compagnia/via. Ad un termine fortemente connotato in senso realistico come lupanare friggitore o detrito Saba accosta e contrappone un vocabolo che ne smorza il peso e la violenza e pone l'accento sulla valenza morale come mare infinito o Signore. Spesso questi stessi termini sono presenti in un verso monoverbale, costituito cioè da una sola parola, caricndosi così una rilevanza ancora maggiore. Frequenti anche, come spesso in Saba, gli enjambements: si specchia/qualche fanale; che va/dall’osteria; il detrito/di un grande porto; impazzita/d’amore; ecc…

Se ad una prima lettura la poesia sembra dipingere un quadro espressionistico di aspro realismo, rileggendo con più attenzione si può notare che ci troviamo di fronte ad un “crescendo”, che accompagna il poeta lungo la via che conclude la lirica, ma che parte dal per ritornare alla mia casa del primo verso. La sua adesione al mondo degli umili presenti nell’oscura via è completa: Saba si identifica con loro e sente in loro compagnia il suo pensiero farsi più puro e la presenza di Dio.

Anche De André conclude la sua canzone con il richiamo agli umili del tutto simile al pensiero di Saba: se non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo. La citazione di Saba è palese: la sua canzone è composta da quattro parti in cui compaiono la bimba che il destino vuole diventi prostituta, i pensionati gonfi di vino e il vecchio professore che solo tra le braccia della donnaccia riesce ad avere un po’ di comprensione. Come in altre sue canzoni, ad esempio Via del Campo, il realismo non è da meno di quello di Saba, come non da meno è l’adesione del cantautore a questo mondo vero, contrapposto al perbenismo borghese degli anni Sessanta.



lunedì 18 giugno 2012

Chiara: La stanza del vescovo

Chi non ha mai letto La stanza del vescovo?
Per noi che abitiamo quel lembo di terra lombarda tra laghi e montagne Piero Chiara è un romanziere immancabile, che ha saputo toccare le corde del nostro immaginario collettivo con le sue citazioni di barche e darsene, tra fughe e internamenti in Svizzera ed emigrazione.

Anche se mi piace definirlo un racconto itinerante, il romanzo ha una sua unità di tempo, di luogo e d'azione, quasi come una tragedia dai canoni aristotelici. La storia infatti si svolge esattamente nell'arco di un anno, dal luglio del 1946 a quello successivo, in un'atmosfera di sospensione del vivere, una sorta di anno sabbatico tra la fine della guerra e la ripresa dell'esistenza. L'azione si apre con l'arrivo della Tinca, la barca dell'anonimo narratore, nel porto di Oggebbio e si chiude con la sua partenza, dopo aver peregrinato di porto in porto lungo le sponde di quello stesso lago Maggiore che rappresenta appunto l'unità di luogo. Come nelle migliori tragedie greche i personaggi sono tre: il narratore, Temistocle Orimbelli e sua cognata Matilde Scrosati vedova Berlusconi. Vedova bianca ...

Dicevo appunto che la vicenda si apre nel porticciolo di Oggebbio dove il protagonista, giovane sfaccendato alla giuda della tozza barca di nome Tinca, io narrante della storia, si imbatte nel dottor Orimbelli. "Era un uomo sui quarant'anni, piuttosto piccolo, robusto, dal collo largo, con la testa a pera, da brachicefalo, coperta da una piantata molto rada di capelli scuri, ben pareggiati a spazzola. Pareva un giapponese e comunque un mongolo ..." Nessuno si aspetterebbe che sotto queste spoglie si celi un impenitente dongiovanni, che approfitta dell'amicizia del giovane proprietario della Tinca per scorrazzare su e giù per il lago sospinto dell'inverna e dal muscendrin, sempre alla ricerca di nuove prede femminili: la bella svizzera Germaine e la sua amica Charlotte, l'elefantiaca signora Armida, ... ed infine la linfatica cognata Matilde.

Attorno alla sua conquista da parte dell'Orimbelli ruota tutta la seconda metà del romanzo. Matilde poco prima della guerra aveva infatti sposato l'ingegner Berlusconi, fratello dell'arcigna signora Cleofe, proprietaria dell'omonima villa a lago, nonché moglie, separata in casa, dell'Orimbelli. Ma, complice la burocrazia, il matrimonio era avvenuto solo per procura, in quanto il Berlusconi era già partito per l'Africa dove era scomparso dopo una battaglia. Siccome il matrimonio per procura non era stato consumato nel giro di sei mesi, Matilde è legalmente vedova solo a titolo di cortesia e convive con la cognata nella villa dove, dopo la fine della guerra, è rientrato anche l'Orimbelli. Qui, nella stanza occupata un tempo dal defunto Monsignor Alemanno Berlusconi, viene ospitato di tanto in tanto anche il narratore che, tra un sonno e l'altro, sente solo i tarli che rosicchiano il vestito rosso del vescovo ancora appeso nell'armadio, mentre il subdolo Orimbelli si lancia alla conquista della cognata.

L'atmosfera che si era aperta con una citazione idilliaca del lago da Piccolo mondo antico ed era proseguita come una farsa con avventure boccaccesche, si fa d'un tratto tragica: la signora Cleofe muore misteriosamente affogata nella darsena (altra citazione), mentre il marito, l'amante e l'amico sono in barca. Ecco quindi il giallo, con Chiara che si accompagna magistralmente nelle indagini della procura, fino al colpo di scena della ricomparsa del Berlusconi, vivo e vegeto nonostante la dichiarazione di morte presunta, ma "capponato". Questi non crede al suicidio per disperazione della sorella Cleofe e si mette ad indagare, fino a trovare le prove della colpevolezza dell'Orimbelli, che nel frattempo ha sposato Matilde. L'epilogo è il suicidio, questa volta vero, dell'Orimbelli: un'impiccagione alla Condé nella stanza del vescovo.

Magistrale anche l'interpretazione di Ugo Tognazzi e Ornella Muti nell'omonimo film di Dino Risi, in cui anche Chiara fa una breve comparsa come cancelliere del tribunale, quello stesso lavoro che aveva svolto per tanti anni nella vita.


venerdì 15 giugno 2012

Chiara: Saluti notturni dal Passo della Cisa

Ho ripescato dalla mia biblioteca un romanzo di Piero Chiara, uno dei miei scrittori preferiti. Mi è venuta la curiosità di rileggere questo autore, al quale la critica ha più volte paragonato il bellanese Andrea Vitali e la scelta è caduta su uno dei suoi pochi romanzi non lacustri. Caspita che differenza... erano un po' di anni che non prendevo in mano un suo testo ed effettivamente le analogie si limitano all'ambientazione sul lago e ad alcune tipologie di personaggi. Ma la caratterizzazione è proprio diversa.

La scrittura di Chiara è logica ed essenziale, non si dilunga in dettagli che poco hanno a che fare con la narrazione e che sono invece il pepe delle storie di Vitali. E poi c'è la scelta del "giallo" che Chiara, aiutante di cancelleria dipendente dal ministero di grazia e giustizia fino al raggiungimento dell'età pensionabile, ci fa gustare in molti suoi romanzi. Ma anche un romanzo itinerante, su e giù dal passo della Cisa.

La vicenda si snoda tra Bergamo e Lerici con al centro la provincia di Parma, su quelle colline di Langhirano dove stagionano culatelli e parmigiano. Qui in una villa isolata si è ritirato Pilade Spinacroce, rientrato in patria con i miliardi dopo una vita trascorsa in Argentina. Il vecchio emigrante ha riallacciato i rapporti con sua figlia Myriam, rea di aver ceduto alle lusighe di un casanova da strapazzo, l'oculista Francesco Salmarani, da cui ha avuto Albertino, affetto da una rara sindrome che lo rende una specie di mostro deforme. La gente vocifera che il vecchio Pilade abbia nascosto in una stanza segreta della villa, una sorta di caverna di Alì Babà, i miliardi portati dal Sud America dentro alla bara della moglie ed intorno a lui inizia un balletto alla ricerca dell'eredità o del bottino. La bella governante Maria Malerba (nomen omen), che diventa l'amante del vecchio, i due giovani scapestrati Felegatti e Bonomelli, che cercano di rapinare la villa, lo stesso Salmarani, che diventa a sua volta l'amante della Malerba, mentre si sposta nottetempo tra Bergamo e la Liguria.

Dopo il finale a sorpresa de La stanza del vescovo e il doppio colpo di scena de I giovedì della signora Giulia, il finale dei Saluti notturni non potrebbe essere più inaspettato: una multiforme girandola di possibilità che confondono il lettore. Fino alla battuta finale del protagonista Salmarani all'amorfa Myriam: "Ti ho messo davanti tutte le verità possibili. Scegli tu quella che ti va meglio".

Quasimodo: Sera nella valle del Masino

La poesia “Sera nella Valle del Masino” di Salvatore Quasimodo è composta da otto strofe che non hanno un numero di versi sempre uguale. La lunghezza di ogni verso non rispetta alcuno schema metrico e quindi possiamo trovare versi di sette sillabe e altri di undici. Troviamo poche rime o al mezzo o baciate. Viceversa sono frequenti figure retoriche come enjambement, allitterazioni e similitudini. In certi versi come ad esempio nel primo la frequenza di doppie rende la lettura della poesia fluida e scorrevole. 

Tristezza, noia, nostalgia, rimpianto e amore: ecco cosa rappresenta per Quasimodo la Valtellina. Questi sentimenti vengono espressi nella poesia “Sera nella valle del Masino”. Perché tristezza e noia? Il poeta siciliano non raggiunse la valle per sua volontà bensì perché ne fu obbligato per cattiva condotta. E come noi abbiamo una sorta di repulsione per ciò che ci viene imposto anch’ egli non esitò a odiare la valle. Il malessere era alimentato dalla soffocante nostalgia che gli faceva rimpiangere i bei tempi passati. Come se non bastasse l’amore per Sibilla Aleramo lo farà soffrire costantemente in quanto lei non ricambiava il suo sentimento.

Degno di nota è il paragone di Quasimodo Valtellina-sera . Essa infatti rappresenta il momento della giornata in cui a causa della mancanza di luce la città si ferma, diventa deserta, silenziosa e la noia prende il sopravvento: la stessa noia che Quasimodo provava tra le gelide montagne della provincia di Sondrio.
Inoltre, è proprio di sera che solitamente rimpiangiamo ciò che non abbiamo fatto durante la giornata o in cui ci soffermiamo a riflettere e pensare. E così anche Quasimodo è assalito dalla nostalgia ed ecco quindi il perché per lui in Valtellina… è subito sera

venerdì 20 marzo 2009

Federico De Roberto: I Vicerè

Il più bel romanzo italiano dell'Ottocento: ogni volta che lo rileggo resto sempre della stessa opinione. Un romanzo storico, o meglio antistorico, un'intricata saga familiare in cui si succedono tre generazioni della famiglia Uzeda di Francalanza di Catania, discendente dai vicerè spagnoli. Anche per De Roberto si potrebbe affermare ciò che disse Pirandello: "Ognuno ha la sua croce, io ho Benedetto". La stroncatura crociana ha infatti influito negativamente sulla popolarità di questo libro che ritengo un vero capolavoro. La bellezza che mi avvince ogni volta è la tecnica narrativa, uno stile obliquo, di seconda mano, in cui una ridda di personaggi si avvicenda sulla scena passando da comparse a comprimari a protagonisti di una porzione della storia. Non c'è una sola figura positiva, sinceramente non riesco vederla nemmeno nella contessa Matilde, che col suo vittimismo accelera la fuga del marito.


La vicenda storica si snoda dal 1855 al 1882, anno delle prime elezioni a suffragio allargato, dagli epigoni della dinastia Borbonica al governo della Sinistra. La saga familiare inizia con la morte della matriarca Teresa e l'apertura del suo testamento, che vede nominati eredi non solo l'odioso primogenito Giacomo, erede del titolo principesco, ma anche il contino Raimondo, il prediletto. Il filo rosso delle eredità, carpite con l'inganno o ricercate avidamente, si sussegue lungo tutta la trama: è infatti l'ossessione del principe Giacomo, che riesce con una serie di tresche a riprendere ai fratelli quanto non gli era stato lasciato dalla madre; è il principale argomento di conversazione, ma soprattutto di invettiva di don Blasco, il corrotto monaco benedettino zio del principe, il cui testamento verrà a sua volta falsificato; è infine anche il velato obiettivo di Consalvo, il principino di casa Uzeda, quando dopo la sua elezione a deputato andrà a far visita ai prozii, il duca Gaspare, senatore del Regno, e la vecchia zitellona donna Ferdinanda, fervente Borbonica.

Un altro tema presente nel romanzo è il cinismo e la volubilità delle relazioni coniugali: "Guardiamo la zia Chiara, prima capace di morire piuttosto che di sposare il marchese, poi un'anima in due corpi con lui, poi in guerra ad oltranza. Guardiamo la zia Lucrezia che, viceversa, fece pazzie per sposare Giulente, poi lo disprezzò come un servo, e adesso è tutta una cosa con lui..." Anche la giovane Teresa, per non contraddire il volere del padre e le sue ubbie nobiliari, finisce con lo sposare il deforme cugino duca Michele, sfornandogli un figlio dopo l'altro e spingendo alla follia e al suicidio il fratello cadetto Giovannino. E che dire del principe Giacomo e del contino Raimondo, che ribaltano i matrimoni combinati dalla madre, per sposare la pettegola e acida cugina Graziella e la bella forestiera di turno? Stupende le prolusioni del cocchiere Pasqualino, che narra la tresca tra Raimondo e donna Isabella: il cambiamento del punto di vista, il suo ribaltamento e la deformazione della realtà è infatti una delle tecniche narrative più frequenti, tanto che non esiste più una storia, non esiste più una verità.


Altro motivo centrale è quello della decadenza della razza. Uno dei passi più famosi del romanzo, un pezzo degno del miglior Naturalismo, è il racconto del parto di Chiara. Dopo anni di gravidanze annunciate e mai arrivate o portate a termine, mentre tutti attendono i risultati dell'elezione del Duca a deputato, la marchesa Chiara entra finalmente in travaglio. "A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall'alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo."

Nonostante l'ostruzionismo dei parenti Chiara vuole vedere l'aborto e decide di conservarlo sotto spirito: "Zio, non pare la capra del museo?"
Al museo dei Benedettini c'era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré
.

"Il governo è ladro e deve fare il suo mestiere di ladro" è una delle frasi esemplari che si trovano nel romanzo in bocca a quel personaggio picaresco ed unico che è don Blasco.

Ma vi sono altri episodi nel romanzo che spiccano per la loro esemplarità.

Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò:
"Che cosa vuol dire deputato?"
"Deputati," spiegò il padre, "sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento."
"Non le fa il Re?"
"Il Re e i deputati assieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!..."

Questo antistoricismo si ritrova anche in altri romanzi siciliani come Il Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi" è infatti la sentenza di Tancredi quando si unisce ai garibaldini. La stessa strada seguita da Consalvo che, sedotto dal potere della capitale durante il suo voyage de formation, si converte dal legittimismo Borbonico alla Sinistra che sola lo può portare sui banchi di Montecitorio succedendo così allo zio duca.

Nell'ultimo capitolo del romanzo troviamo infatti la sublimazione del trasformismo nel comizio elettorale di Consalvo che parla per due ore consecutive senza dire assolutamente nulla. Ma al discorso pubblico segue il vero discorso, di aristocratico fino al midollo, tenuto ad una tossicchiante donna Ferdinanda: "Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?..." continuava Consalvo. "Orbene, imaginiamo che quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press'a poco: "Don Gafpare Vzeda"," egli pronunziò f la s e v la u, ""fu promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco II di Borbone al Re don Vittorio Emanuele II di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino, Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico di senatore. Don Consalvo de Uzeda, VIII prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo..." Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: "Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d'Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?"
E infine:
"Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa."